La mano invibile sulla città policentrica

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La mano invibile sulla città policentrica

E’ forse possibile pensare oggi alla Como di ieri e ai tanti slogan che si sono usati e consumati per provare, a volte con frasi fatte, a dare una risposta a problemi complessi, magari sbagliando l’oggetto del contendere?
Proviamo a farlo. Proviamo a parlare del perché non può davvero esserci una città policentrica stando le cose come sono oggi.
Negli ultimi anni attorno alla questione del “decentramento” e della valorizzazione dei quartieri si è parlato di città policentrica, che non cercasse solo nella convalle la sua identità di luogo vivo e vissuto.
Realmente questo però è possibile provare a farlo immaginando la natura dei nostri quartieri e alla funzione sociale che in essi viene sviluppata.
Uno sviluppo urbano senza riflessione sociale, sulle relazioni sociali, è quello che la città ha vissuto negli ultimi anni.
Dobbiamo chiederci però quali sono questi luoghi e per farlo dobbiamo partire dai quartieri stessi. Dai quartieri e dalla natura sociale tanto invocata, ma poco analizzata.
Al di fuori della convalle Rebbio e Camerlata hanno dei luoghi sociali, la parrocchia, dei cinema e un teatro, che seppur col cambio dei tempi, hanno un significato già di per sé.
Luoghi precisi, ma nessuno capace di sostituirsi o ricreare in piccolo le dinamiche della piazza del paese o del centro città.
I luoghi pubblici simbolo della socialità tuttavia sono due, la chiesa, o meglio la chiesa parrocchiale col suo sagrato, e la piazza col suo monumento risorgimentale, a simboleggiare la presenza dello Stato. Fanno da corollario i vari monumenti ai caduti.
Tuttavia vista la secolarizzazione della società questi luoghi sono sempre meno frequentati e con l’avvento della televisione anche i cinema e i teatri parrocchiali sono ormai spazi di un passato remoto.
Se vogliamo parlare di Albate la nuova piazza costruita al posto della Frei non andrà mai a sostituire la funzione sociale di quanto può avvenire a Sant’Antonino, perché di fatto tutte le piazze moderne non sono che piazzali, non-luoghi ibridi, simili a posteggi vuoti davanti ad un supermercato.
Pensiamo alla piazza per eccellenza che mostra la stratificazione storica, la piazza dell’Anfiteatro di Lucca. Ciò che resta dell’epoca romana, diventa abitazione e luogo di botteghe e commercio nel medioevo e lo resta ancora adesso nel XXI secolo. Lì si crea scambio, scambio inteso in tutti i sensi; scambio economico e di relazioni.
Attorno alle nuove piazze ci sono forse attività commerciali o sono dei bei piazzali, dei grandi spiazzi senz’anima seppure in un bel progetto in stile “Rivarossi”?
Forse “le piazze d’Italia” alla Charles Moore ispirate a De Chirico possono andare bene nella downtown di New Orleans, ma hanno qualche problema ad inserirsi nel contesto sociale e in un paesaggio come quello italiano.
Perché non ci sono “piazze d’Italia” a Monte Olimpino, a Sagnino, a Pontechiasso, così come non ce ne sono a Breccia, Prestino, Civiglio e Tavernola.
Qual è il centro di questi quartieri e come è vissuto?
Nella maggiorparte dei casi possiamo dire che l’attività antropo-sociale maggiore permane attorno ai luoghi di culto e il motivo è evidente.
Non esistono luoghi “laici” di aggregazione, perché non c’è scopo a ritrovarsi in quegli spazi, soprattutto oggi nel XXI secolo.
L’encefalogramma di quella sorta di “piazza” nel complesso “Quarto Ponte” tra via Benzi e via Torriani a distanza di venti anni dalla sua costruzione, nonostante sia un progetto ad hoc, ci dà gli stessi segnali sociali di una piazza Cacciatori delle Alpi, che resta un sagrato e tetto di un posteggio, e di piazza Giovanni Paolo II, un “antisagrato” per la chiesa di San Giorgio.
Che cosa ci dice questo? Che anche volendo il miglior progetto coi migliori disegni del mondo, la qualità di un luogo è data dal flusso delle persone e dalla natura che questo flusso ha.
Per quale motivo le persone dovrebbero andare in un luogo spoglio e senza niente? Infatti le nostre periferie o per meglio specificare i quartieri che sono stati trasformati nel XX secolo in periferie della città che resta in convalle non hanno piazze con attività commerciali attorno, piazze su modello di quelle di ogni centro storico per capirci.
Gli esempi della Como Alta, del Dadone, del Quarto Ponte sono tutti fallimentari dal punto di vista sociale e il motivo è molto semplice: al cittadino paiono spazi privati. Il venir meno della natura pubblica di un luogo, lo rende abbandonato. Il fatto stesso di trovarsi chiuso dietro a una quinta lo rende un cortile, a maggior ragione se questa è sopraelevata.
La natura pubblica dei luoghi è data dalla percezione che si vuole dare.
Pensiamo all’Ippocastano e al suo posteggio. Lì c’è la comunità latino americana che ha compreso che quello spazio era comune e lo ha usato come luogo di aggregazione.
Al contrario dei cintati giardini di via Anzani, che nonostante i tentativi di recupero versano in una situazione di maggiore solitudine sociale.
Del resto tutto quello che chiedono oggi le persone per qualificare un luogo come grado “uno” della scala sociale sono i giardini attrezzati, standard a verde classico, che però mostra la necessità minima di una relazione spaziale-sociale che si limita al vedere gli individui come elementi singolari, come nuclei famigliari che usufruiscono di un servizio.
Pensiamo alla piazza Fisac. Le persone vivono la parte del giardino attrezzato, la piazza vera e propria è un invito ad entrare nell’edificio che ospita cinema e GDO.
Perché una persona dovrebbe fermarsi lì? semplicemente per entrare nell’edificio.
Il tempo dei teatri e dei cinema intesi come “dopo lavoro” appartengono ad una condizione passata, impostata come Crespi d’Adda forse, ma comunque figli di una società industriale dove i luogo di produzione e del lavoro necessitava anche di un luogo del dopolavoro vicino, un luogo apposito.
Se il dopolavoro si limita ad una attività domestica e gli spazi sociali di interazione sociale delle famiglie sono limitate ai luoghi del consumo nella forma della grande distribuzione capiamo da soli che non può essere certo la mano invisibile del mercato a costruire la città policentrica, né la volontà politica di qualcuno che lascia le cose come stanno. E chiaramente -diciamolo- non è facile cambiare, non è facile rimetterle insieme quando le uova si sono rotte.
Di fatto le periferie come i paesi della cintura urbana resteranno quartieri dormitorio e il brulicare domenicale di persone e il viavai di auto connoterà e darà vita a quei luoghi.
Questo sviluppo degli abitati che è una costante italiana vede attorno al centro storico svilupparsi le nuova case residenziali, senza servizi, senza negozi, e poi una zona industriale, che spesso senza ragioni di sorta va a mischiarsi con quella del paese a fianco o con la zona industriale di quel comune. Questo a livello macro, mentre nel micro le questioni sono quelle sollevate.
Le piazze di nuova fattura saranno solo grandi spiazzi di decoro, atti a dare visibilità al palazzo che gli sta dietro, ma senza un motivo per fermarsi di fronte.
Che si chiamino Pirellino o in altro modo, le piazze moderne, soprattutto nella città di Como forse subiscono la perfetta vacuità della piazza del Popolo di fronte alla casa del Fascio. Piazze perfette per un progetto, ma che spingono le persone a stare a casa loro.
Chiaramente questa non è affatto una critica ai progetti architettonici in sé, che potrebbe anche starci, ma non certo qui, ma alla presunta funzione sociale che le nuove edificazioni dovrebbero avere per loro natura, quando la funzionalità sociale di un qualsiasi cosa emerge dopo una riflessione sull’obiettivo e sullo scopo che ci si è prefigurati.
Purtroppo non c’è nessuna mano invisibile e le scopo non viene da sé.
E a distanza di secoli forse anche Adam Smith guardando certi luoghi sceglierebbe di andare verso Piazza San Fedele o in Piazza Vittoria, lasciando la mano invisibile nelle città invisibili.