Curo, ergo sum

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Curo, ergo sum

di Nicoletta Pirotta

Dentro la   pandemia in cui ci troviamo una parola risuona con insistenza in moltissimi luoghi anche molto diversi fra loro: cura.

E’ tutto un fiorire di iniziative pubbliche, di discorsi, di dibattiti  nei quali la “cura” diventa il leit motiv di fondo.

Forse allora sarebbe utile domandarsi quale significato si vuole dare a questa parola.

Perché le parole possono sostenere percorsi trasformativi e liberatori ma anche di mantenimento dello status quo o, peggio, di involuzione.

Provo pertanto a condividere alcune mie riflessioni sul significato termine “cura”.

Sono scarsamente interessata ad intendere la “cura” come un gesto di riparazione di un  guasto. Sono tanti e tali i mali che affliggono il nostro mondo che non riesco nemmeno lontanamente a pensare come lo si possa semplicemente riparare, riaggiustare o addirittura guarire.

Così come non mi convince il pensiero che postula che la “cura” sia essenzialmente un’attitudine  femminile. Perché questo è esattamente il modo attraverso il quale si è inferiorizzato il genere femminile relegandolo nella sfera domestica o in lavori considerati “minori” per considerare le donne il “secondo sesso” e consolidare una gerarchia di potere che ancora oggi persiste.

Mi convince di più considerare “la cura” come un nuovo paradigma di senso e di azione, una prassi dunque, che presuppone un riorientamento radicale di pensiero insieme all’esigenza di un modo diverso di stare al mondo.  In questo senso curare non può che voler dire confliggere con l’ordine economico, sociale e politico che governa il mondo. Modificando al contempo anche noi stesse/i.

Come scrive l’antropologa ecofemminista spagnola  Yayo Herrera in un’intervista esclusiva a Sara Pollice su Jacobin Italia : “ Non credo che le donne abbiano un principio femminile che le renda differenti, più portate a occuparsi della vita. Ciò che è vero è che la cura è stato un lavoro storicamente femminilizzato, ed è un lavoro importante, un lavoro trascendentale, e da un punto di vista femminista e non femminile c’è bisogno di suddividerlo, di fare in modo che l’insieme della società, l’insieme sociale integrato da uomini, donne, persone e istituzioni, si occupi corresponsabilmente della cura del corpo. Non è un lavoro strettamente di donne, non è un lavoro femminile, è un lavoro che fanno le donne perché viviamo in una società patriarcale che obbliga, in forma non libera, le donne a svolgerlo”

La pandemia dimostra che dimensione della cura e lavoro di riproduzione sociale e domestica, cioè l’”economia della cura” come la chiama la filosofa femminista statunitense Nancy Fraser, sono elementi fondanti la vita stessa di una società.

Mettere al  centro le relazioni di cura, per prendersi cura di sé, delle e degli altri e del mondo consente di ripensare il modello economico e sociale per chiedersi quali siano i bisogni umani da sostenere, quali  le produzioni di cui abbiamo bisogno e quali i lavori socialmente necessari ed inoltre, considerata l’interdipendenza e la  vulnerabilità dei nostri corpi come prendercene cura in ogni fase dell’esistenza.

La pandemia, insieme al triste carico di dolore e lutti, ci offre anche la possibilità di ripensare il mondo. Non sprechiamola.

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