di Paola Minussi
Se ripenso ai miei esordi come insegnante di musica sorrido. Sorrido perché provo tenerezza per quella ragazzina che, fresca di diploma in chitarra, voleva dimostrare a se stessa e agli altri di essere una brava insegnante, oltre che una brillante musicista.
A vent’anni, comincio a insegnare chitarra classica presso una prestigiosa accademia di musica oltre frontiera. Sono felice e orgogliosa di me; non sono passati nemmeno tre mesi dal mio diploma di Conservatorio e già posso dire di avere un “vero” lavoro, con tanto di contratto e di stipendio. Perdipiù in un Paese straniero, dove la professione di insegnante di musica gode di una certa considerazione. Poco importa se, rispetto ai miei colleghi, quasi tutti uomini, sono l’unica che deve fare la spola tra quattro sedi diverse.
Lo so, sono l’ultima arrivata e devo ancora costruirmi una classe tutta mia. Mi piace la sfida e ho entusiasmo, energia e, per fortuna, dispongo pure della macchina di mia madre in prestito. Faccio i salti mortali per quattro anni, incastrando orari, spostamenti; cerco di venire incontro alle esigenze dei miei allievi e delle loro famiglie. Con i colleghi sono collaborativa, ma non invadente e non accampo pretese per avere più alunni concentrati in uno stesso luogo o una classe più numerosa (come fanno i miei colleghi).
Lo so, sono l’ultima arrivata e devo dimostrare di essere all’altezza.
Con queste convinzioni proseguo il mio lavoro.
Al quinto anno si profila quel cambiamento che tanto aspettavo: è stata creata una nuova classe in una sede importante e la direzione affida a me la cattedra. Faccio i salti di gioia: finalmente passerò più tempo a insegnare che non in auto per spostarmi tra le vari sedi in cui insegno.
Mi metto subito all’opera: contatto i miei nuovi alunni, trovo per ognuno di loro l’orario perfetto in cui venire a lezione. Insomma: ai primi di settembre ho già il mio registro di classe compilato e sono pronta a inaugurare l’anno scolastico.
Senonché, due giorni prima dell’inizio delle lezioni, ricevo una telefonata: è la segreteria della scuola che mi avvisa che è stato appena assunto un nuovo insegnante, tirocinante presso la sezione di perfezionamento dell’Accademia. Hanno deciso di assegnare a lui la nuova classe. La notizia mi coglie di sorpresa e, in quel momento non riesco a capire cosa sia successo.
A svelare il mistero è un mio collega, che, con il sorrisetto ammiccante e arrogante che lo contraddistingue, mi dice chiaro e tondo che non sono stata abbastanza ‘furba’ e ‘presente’ nelle occasioni giuste. Cioè, sia chiaro, sono sempre andata a tutte le riunioni e agli incontri e alle assemblee e ai confronti sulla didattica, ma non ho partecipato agli altri incontri, quelli più mondani, dove, pare, si decidevano le sorti delle classi.
E mentre lo ascolto, basita e amareggiata, sale in me una rabbia incredibile.
Non lascio passare una settimana e mi licenzio. Trovo un nuovo lavoro, molto più lontano e in una lingua straniera che non parlo ancora bene, ma non ho intenzione di subire una seconda volta un trattamento “di genere” del genere.
Oggi, a distanza di oltre venti anni, posso dire d’aver fatto la scelta giusta. Peccato che abbia dovuto allontanarmi sempre di più dall’Italia, che, aimè, non è un Paese favorevole a noi donne.
E non è l’unico Paese in cui le donne debbano percorrere strade più ripide e faticose per vivere, sopravvivere, lavorare o raggiungere posizioni di rilievo, in qualunque settore.
Vi porto l’esempio della vicina Svizzera; spostiamoci ancora più a Nord, non più in un cantone italiano, bensì in un cantone tedesco.
L’accademia dove insegno è un luogo di alta formazione, noto in tutto il mondo per il prestigio del proprio personale docente, per l’efficienza dell’organizzazione e per la bellezza architettonica della propria sede. Ebbene, le classi di strumento, dai primi corsi a quelli di più alto livello hanno una percentuale altissima di studentesse (ragazze). Le artiste hanno voti molto alti e performance strepitose.
Anche i ragazzi non scherzano, sia chiaro, ma le ragazze sono numerose e capaci. Allorché si passa nel mondo del lavoro, però, noi donne cediamo al passo in cattedra a un numero maggiore di colleghi uomini. Al momento di calcare le scene, poi, avviene un netto sorpasso dei musicisti che approdano sul palco rispetto alle musiciste.
Sempre rimanendo all’interno della mia Accademia di musica, realtà che conosco e che prendo oggi a esempio di ciò che desidero testimoniare, ci tengo a darvi un altro dato numerico molto interessante e significativo: sapete qual’è la percentuale di donne e uomini impiegati nel servizio di pulizia dell’Istituto? Sono tutte donne. Tutte. Le donne delle pulizie, sono tutte donne. Bè, di cosa ci stupiamo? Lo dice anche la stringa di parole che è diventata un sostantivo a sé per definire tale lavoro: “donna delle pulizie”.
Ecco perchè, oggi, anno 2021, secondo anno di pandemia, c’è chi ancora sostiene, in barba a tutte le regole grammaticali, che sia corretto e opportuno chiamare (e farsi chiamare) “direttore d’orchestra”, anche quando a dirigere l’orchestra è una donna. Per lo stesso principio, vi invito a chiamare chi fa le pulizie, anche nel caso in cui appartenga al genere maschile: “donna delle pulizie”, perchè questo “è il nome specifico per indicare tale mestiere”.
Concludo con una frase di Gianrico Carofiglio, che trovo di grande ispirazione e augurio per tutte e tutti noi:
“Mi ha sempre affascinato l’idea che le parole – cariche di significato e dunque di forza – nascondano in sé un potere diverso e superiore rispetto a quello di comunicare, trasmettere messaggi, raccontare storie. L’idea, cioè, che abbiano il potere di produrre trasformazioni, che possano essere, letteralmente, lo strumento per cambiare il mondo.”
E noi, questo mondo e questo modo di definire, agire e vivere, lo vogliamo davvero cambiare; lo possiamo fare solo se stiamo insieme uniti, donne e uomini, sorelle e fratelli di un’unica umanità.
Insieme possiamo davvero fare la differenza. Ne sono convinta. Buon 8 marzo a tutte e a tutti!
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‘8 messaggi per l’8 marzo’ è il nostro modo di celebrare la festa della donna.
Da oggi e per i prossimi 8 giorni troverete sul nostri profili le riflessioni di alcune donne della società civile.