C’è chi pensa di chiudere le nostre scuole

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C’è chi pensa di chiudere le nostre scuole

È recente la notizia dell’intenzione dell’Amministrazione comunale di Como, come si apprende da un atto della dirigente del “Settore 6: servizi educativi e sociali – quartieri e partecipazione”, di chiudere diversi edifici scolastici da qui ai prossimi anni. È certo che la città non avrebbe alcun vantaggio dalla chiusura delle scuole di via Perti e via Volta e in altri quartieri, a Prestino per esempio, le chiusure immaginate porterebbero una ulteriore riduzione dei servizi. È l’esatto contrario di ciò che in questi anni avviene nei centri urbani più avanzati e attenti ai propri cittadini, nelle città nelle quali si rendono disponibili i servizi essenziali con minimi spostamenti per i residenti (“La città 15 minuti”) con l’obiettivo di contrastare lo spopolamento.

La razionalizzazione e la concentrazione degli studenti sarebbero motivate da problemi strutturali di alcuni edifici che non avrebbero avuto adeguata manutenzione negli ultimi anni. C’è però da chiedersi quale sarebbe il destino di queste strutture in una Como sempre più preda di lucchetti delle case-vacanza e con un centro città sempre meno abitato da comaschi.

La chiusura delle scuole non è certamente la risposta alla preoccupazione per il calo demografico e non possiamo dimenticare che le istituzioni non hanno solo il compito di garantirne il funzionamento ma anche di promuoverne la diffusione. Si è creduto che il terziario avrebbe rimpiazzato l’industria, ma le fabbriche chiuse sono state sostituite da condomini e supermercati e alla chiusura di scuole e di edifici pubblici raramente ha fatto seguito qualche realizzazione alternativa. Basti ricordare un esempio noto a tutti: l’ex scuola Baden Powell, già sede dell’orfanotrofio maschile, è chiusa da molti anni. Al quartiere e alla città tale chiusura non ha portato alcun vantaggio ma piuttosto l’onta di una struttura sempre più degradata. Malgrado i tentativi esperiti, l’alienazione è rimasta una speranza e una qualunque rigenerazione urbana un miraggio totalmente teorico.

È questa la prospettiva delle strutture che resterebbero inutilizzate? È davvero buona amministrazione mantenere solo parte dell’esistente? È davvero buona politica tutto questo? Il bilancio sociale delle scelte è altro dalla contabilità di fine anno.

D’altro canto, se una struttura ha la copertura ammalorata, corre l’obbligo di intervenire comunque, pena il rischio di danni ben più gravi e non ne mancano certo gli esempi. Se, come si dice, il tetto di una scuola è danneggiati lo si abbandona a se stesso lasciando che l’acqua piovana intacchi i plafoni e completi il disastro? È chiaro a tutti che trascurare la manutenzione delle strutture genera inutili costi aggiuntivi. La politica non può stanziare milioni di euro per un edificio in uno stato precario come il Santarella e, intanto, avviare altri edifici a quello stesso destino.

La scelta che assume come unico argomento la razionalizzazione guarda all’immediato ma nasconde problemi contingenti, generandone altri che resterebbero come pesante debito sulle spalle della città.

Una città che ha nel tessuto urbano edifici spenti e luoghi senza vita è una città piena di ferite. Queste ferite a chi giovano?  Se poi  la perdita di servizi alle persone non fa che spingere altrove i cittadini ci chiediamo se questo è ciò che tutti noi vogliamo dagli amministratori pro-tempore della nostra città.